1962 - Eiger . Parete Nord. Prima italiana della via Hekmair"
12 - 16 agosto. Con Franco Solina, Pierlorenzo Acquistapace, Andrea Mellano, Romano Perego, Gildo Airoldi.
Il 1962 era l'anno maturo per l'Eiger. Sulla “Via dei Tedeschi”, sulla Parete Nord della Cima Grande di Lavaredo, io ero con Solina e con la cordata di Nando Nusdeo e Casimiro Ferrari. Dopo l'ultimo tratto ghiacciato della via, Nando mi disse: “Puoi andare sull'Eiger quando vuoi”.
Di quella parete conoscevo tutto, le vittorie e le tragedie, cercando di capire perché. Accompagnati da Bruno Tamiello e da Giorgio Matassoni, due amici roveretani, passando da Brescia con la loro Seicento, imbarcammo Franco Solina e ci avviammo verso Grindelwald, la conca sottostante la grande Parete dell'Eiger.
Facemmo una prima ispezione salendo con la cremagliera fino alla Kleine Scheidegg. Poi scendemmo ad un fienile vicino ad Alpiglen. Lì attendemmo, per cinque giorni, il tempo favorevole. Il proprietario di quel podere venne a farci visita per stipulare il suo dovuto compenso. Poi ci disse: “Italiani sull'Eiger. Morgen du kaputt”.
Alla Scheidegg, dopo un ripensamento, accettammo che Pierlorenzo Acquistapace si aggiungesse alla nostra cordata. Dopo un primo bivacco, sopra il “Nido di rondine”, fummo raggiunti dalla cordata di Andrea Mellano, Romano Perego e Gildo Airoldi. Decidemmo di salire assieme la tristemente famosa Grande Parete.
Non la faccio lunga. Sul “Ragno bianco” ebbi la sensazione di camminare sulle uova, poi, inforcate le fessure terminali di uscita, tornai tranquillo, sicuro della vittoria. Dopo cinque bivacchi in parete, rinunciando alla velocità per la sicurezza, giungemmo incolumi in vetta. Dopo aver subìto, nel bene e nel male, tutte le situazioni che la parete presenta, al penultimo bivacco, sotto lo strapiombo di ghiaccio, recitammo il Rosario. Sul libro di vetta, dopo la data, 16 agosto 1962, vicino ai nomi di Oscar Soravito e Massimo Mila, che avevano salito la Cresta Mittelegi, scrivemmo queste parole: “Gloria a Te, Signore”.
Per questa prima ascensione italiana alla Nord dell'Orco molti hanno ironizzato, qualcuno ha inteso anche offendere. Dei pigmei non mi curo. Fra i sedicenti "grandi" a qualcuno al quale il mio nome sembra bruciare le labbra ed a tutti i "colleghi" dico di guardare bene, ma proprio bene, loro stessi.
Forse allora nessuno avrà più nulla da dire.
Dopo tutti i commenti cattivi e invidiosi e il poco cordiale ambiente locale, tornammo a casa felici e contenti. Avevamo superato la famigerata Parete, altro che “gita sociale” come malignò Bonatti! Ma voglio ricordare che con me nessuno si é mai fatto male, neanche la più piccola scalfittura.
Questa è la mia risposta a tutte le cattiverie che sono seguite.
Nel Cinquantesimo della prima italiana alla Nord dell'Eiger, il CAI organizzò a Brescia un incontro in nostro onore: "Eiger, prima italiana alla parete nord".
Un accadimento da non dimenticare. “Buhl, corda”. Era la richiesta di aiuto della cordata francese, guidata da Gaston Rebuffat e Guido Magnone, durante una tremenda bufera, che si era scatenata improvvisamente. E' un fatto che rimane nella storia delle salite sulla via classica della grande Parete dell'Orco. Ma Buhl, che stava sopra, ormai non ne aveva più. Infatti, è stato il suo compagno Sepp Jochler a trarlo fuori dall'ultima parte della parete per arrivare in vetta. Mentre i francesi uscirono per conto loro, dopo.
Questo fatto è riportato nel documentatissimo libro di Giovanni Capra “Due cordate per una parete”.
1962 - Patagonia Argentina (Cile). Torre Sud del Paine. Prima assoluta per parete e cresta Nord. Prima ripetizione "Via degli inglesi" per la parete Nord e la cresta Nord Est. Spedizione CAI Monza.
7 dicembre 1962 - 28 febbraio 1963. Componenti: Giancarlo Frigieri (capospedizione e organizzatore), Carlo Casati, Josve Aiazzi, Nando Nusdeo, Vasco Taldo ed io. Anche due giovani universitari cileni, Mario Alfaro e Pedro Durand, essi stessi posseduti dalla passione andina erano della partita.
Spedizione alla quale ho avuto la fortuna inaspettata di essere invitato, penso per la buona parola di Josve Aiazzi, che avevo conosciuto sulla Via della Concordia alla Cima d'Ambiez in Brenta, e di quella di Nando Nusdeo, con il quale mi ero trovato sulla Via dei Tedeschi alla Nord della Cima Grande di Lavaredo, in quella occasione lui era in cordata con Casimiro Ferrari.
L'idea era nata per ricordare il grande Andrea Oggioni che, nel 1961, aveva perso la vita sul Pilone del Freney al Bianco. Di quella prima spedizione, delle sette che ho compiuto complessivamente negli anni a seguire, conservo il ricordo di un fantastico sogno vissuto realmente. Col viaggio via mare siamo stati assenti dall'Italia per oltre tre mesi.
Le Torri sono ubicate nella zona dell'estancia Cerro Guido, allora amministrata dai signori Wilson, inglesi, della società Esploradora, una multinazionale proprietaria di quell'immenso “cielo” di terra dove vivono ottocentomila pecore merinos, mille più, mille meno, custodite e spostate, da pascolo a pascolo, dai gaucios, campioni nella doma dei cavalli selvaggi.
Prima di noi, da più di un mese, degli inglesi, che si dicevano membri di una spedizione "scientifica!" si trovavano nella zona. Obiettivo vero: le Torri del Paine Centrale e Sud. La Torre Nord e la cima principale (Cerro Paine) erano già stati saliti nel 1957 dalla spedizione di Guido Monzino.
Era materialmente impossibile, per noi, recuperare un così pesante svantaggio nei loro confronti. Così dopo inenarrabili sacrifici e fatiche, il 16 e 17 gennaio, ripetemmo la via degli inglesi alla Torre Centrale, a distanza di un solo giorno dalla loro ascensione. Rimaneva ancora la Torre Sud, la più alta, la più difficile, che già due anni prima aveva respinto gli "scientifici".
In giorno 9 febbraio 1963 eravamo in vetta alla “nostra” Torre Sud, completando così i nostri obiettivi.
Nel silenzio più assoluto ci abbracciammo in vetta. Solo due parole: “Vasco – Armando”. Poi si scatenò il vento che suonava l'organo del cielo al diapason. Come se l'enorme tastiera fosse toccata dalle magiche mani di Johann Sebastian Bach. Sul vertice estremo urlammo il nostro grazie alle montagne e al cielo.
Ho ricordi positivi di quell'avventura umana prima ancora che alpinistica. La fraterna amicizia che era nata fra noi partecipanti. I vari incontri con gli italiani residenti a quelle latitudini, assolutamente nuove per noi. In particolare l'incontro conviviale in un ristorante chic di Punta Arenas col nostro ambasciatore italiano a Valparaiso, che aveva noleggiato una aerotaxi per fare un giro attorno alle Torri, atterrando nel campo in terra battuta dell'aeroporto dell'estancia Cerro Guido.
Gli accadimenti particolareggiati di quella spedizione si possono leggere nei miei libri “Pilastri del cielo” (ormai introvabile) e "Nella luce dei monti".
Ancora oggi, dopo oltre cinquant'anni dalla spedizione alle Torri del Paine, quando ripenso all'arrivo in vetta alla vergine Torre Sud, mi sembra di essere lì. Il vento suona l'organo del cielo. Il sole dardeggia. L'aria è limpida sotto un grande cielo di profondo blu che mette i brividi. Una lama di granito rosa al confine con l'azzurro impalpabile. Una porta, un velo davvero si scopre per un fuggente attimo. Abbiamo visto, abbiamo ascoltato, abbiamo bevuto alla fonte che lascia un desiderio, quasi un tormento, ancora più grande, perché, dentro, ci brucia un soffio d'infinito. Mi rivedo con le braccia alzate in atto di suprema adorazione. Un ringraziamento urlato sale nell'aria: “Grazie, grazie montagne”. Con la certezza che il Signore sapeva, da sempre, chi erano i piccoli uomini a cui era stata riservata quella montagna che stava sotto i loro piedi.
1966 - Ande Patagoniche. Torre Innominata. Spedizione "Vittoria Alata"
Estate australe 1966. Componenti: Franco Solina, Alberto Aristarain, Cesarino Fava, Fausto Barozzi, Mario Castellazzo, Pippo Frasson ed io.
Nella prima spedizione al Paine, avevo adocchiato una colossale torre innominata, di fronte alle tre torri più celebrate. Sostenuti da alcuni amici bresciani del CAI, fu organizzata la spedizione “Vittoria Alata”. Obiettivo: la Torre innominata del Paine.
Anche questa volta, come in tutte le occasioni delle mie spedizioni in Patagonia, siamo stati aiutati, da Angelo Battegazzore un piemontese di Alessandria. Personalmente sono sempre stato accolto come uno di loro da tutta la sua famiglia. Non lo potrò mai dimenticare.
Dopo il viaggio in nave prima, poi treno e camiom avevamo installato il campo base all'inizio della salita che porta alla valle del Rio Asensio, che nasce dai ghiacciai ai piedi delle Torri del Paine.
Quella fu una spedizione sfortunata fin dal principio. Dopo aver approntato il campo venne un carabinero della polizia di confine cilena a portare la triste notizia che Fausto doveva tornare subito a Baires perché suo padre era in fin di vita. Noi, pur addolorati, rimanemmo, cominciando i trasporti del materiale occorrente per l'avvicinamento alla montagna sognata, che avremmo chiamato “Torre dell'Amicizia”.
Iniziammo subito i nostri ripetuti tentativi, sempre frustrati da un tempo impossibile. Dopo nove bivacchi complessivi su quella Torre, flagellati dalle più tremende bufere patagoniche, dovemmo rinunciare, ricacciati ad appena un tiro di corda estremo dalle rocce terminali della vetta. Nell'ultimo tentativo fummo bloccati per due giorni e tre notti, sotto mezzo metro di neve, che paradossalmente ci riparava dal vento e dal freddo. Uscimmo per il “rotto della cuffia”, come si dice.
Ero salito sulle placche ghiacciate, sbatacchiato qua e la per liberare le corde doppie che non riuscivo a recuperare. Con grande rischio e fatica riuscii a liberarle, per continuare le discese, in una atmosfera da tregenda, con la consapevolezza di essere dei sopravvissuti.
Eppure, nell'ultima notte, in un battere di denti, ho sognato fantastici pilastri di granito rosa, emergenti da immensi ghiacciai luccicanti al sole. Mi svegliai di soprassalto e mi accorsi di essere senza ali, ma con le lacrime agli occhi. Era la ritirata, la sconfitta che metteva a nudo la nostra pochezza di piccoli uomini. Ci eravamo illusi di poter osare oltre ogni ragionevole rischio lecito. Fu una lezione di umiltà.
Abbiamo sempre pensato che anche una sola vita umana vale più di tutte le montagne del mondo e che i nostri cari a casa ci aspettano sempre con grande trepidazione.
Di quella spedizione mi sono rimasti incancellabili ricordi di gelo.
Fine della mancata spedizione alla Torre dell'Amicizia, che rimane la Torre Innominata del Paine, detta anche Fortaleza.
1971/72 - Patagonia. Pilone Orientale del Fitz Roy "Città di Rovereto"
Estate australe 1971. Componenti: Mariano Frizzera, Graziano Maffei, Angelo Miorandi, Sergio Martini (la giovane stella del gruppo), Franco Solina ed io.
"Quale generazione oserà attaccare il Pilone Orientale?”. Questo scriveva il dottor Azema nel suo libro “Fitz Roy Cerro di Patagonia” che racconta la conquista della vergine cima nel 1952 dalla spedizione francese di Lionel Terray, Guido Magnone, Jacques Poincenot e Marc Antonin Azema stesso.
Quelle parole mi martellavano dentro, ci sarebbe voluta una spedizione adeguata. Grazie all'aiuto di Giovanni Spagnolli (presidente generale del CAI dal 1971 al 1980), Franco Galli (presidente SAT di Rovereto dal 1968 al 1985) e tanti altri non meno importanti, i Lions e i Rotary riuscii ad organizzare la "Spedizione Città di Rovereto". Io ero il responsabile di quel formidabile gruppo di alpinisti della scuola roveretana, fatta eccezione del mio amico Solina da Brescia.
Anche qui devo dire che non ripeto i particolari, giorno dopo giorno della nostra permanenze in zona, dei vani tentativi al Pilone, del tempo meteorologico impossibile, e i settanta giorni a fare l'amore al terribile Pilone. E' tutto raccontato nel miei libri “Pilastri del Cielo” e "Nella luce dei monti". Per farla breve dirò che dopo tredici giorni e tredici notti di una eccezionale continua nevicata, il nostro campo alto che avevamo scavato ai piedi delle rocce fu sommerso da metri e metri di neve, per cui perdemmo tutto il materiale portato fin lassù per tentare di scalare il fantastico Pilone. Dovemmo giocoforza pensare al ritorno in Italia. Chissà perché non ci fu concessa una nuova conoscenza di noi stessi e del cielo australe. Comunque penso di poter dire, anche a nome dei miei amici, che laggiù sotto il cielo della Croce del Sud abbiamo vissuto un'avventura indimenticabile.
Aggiungo un episodio scherzoso. Graziano, detto Feo, dopo aver cucito i pantaloni strappati, andò a dormire con gli aghi nella tasca posteriore. Al mattino dopo ci raccontò di aver sognato che gli stavano facendo una iniezione che non finiva mai. Ci accorgemmo che un ago, sfortunatamente, gli si era infilato in un gluteo. Con pazienza e sopportazione del soggetto, l'ago poté essere estratto.
Rientrammo a casa con uno stringimento al cuore, ma ben vivi e con una ulteriore lezione di umiltà.
1976 - Parete Ovest del Fitz Roy. Tentativo recupero salme F.Frasson e M.Bianchi.
Febbraio 1976. Componenti: Franco Solina, Mariano Frizzera, Cesarino Fava, Attilio Frasson, Boris Cambic, Padre Ernesto Milan ed io.
Una commossa lettera di Cesarino Fava, mi portava la notizia che il nostro amico Filippo Frasson, aveva perso la vita con il suo compagno Marco Bianchi, anche lui un emigrato in Argentina, tentando di ripetere la via del californiani sulla Parete Ovest del Fitz Roy. I genitori di Pippo, si erano rivolti a Cesarino per tentare il recupero della salma del figlio. Cesarino mi disse che con il nostro aiuto si poteva provare anche se era come cercare un ago in un pagliaio. Ne parlai ai miei genitori. Mia madre disse: “Dove vuoi andare ancora, non vedi che siamo vecchi e malati”. Dall'Argentina vennero a casa mia a Rovereto la madre e il padre del povero Pippo e parlarono ai miei. Alla fine mia madre disse: “Ma si valà, va”. Interessai Mariano Frizzera e Franco Solina e con l'aiuto di Giovanni Spagnolli da Roma, nell'occasione ospitati nella sua abitazione ai Parioli, partimmo in aereo per l'Argentina.
A Buenos Aires si unirono a noi altri ragazzi del luogo, Attilio, il fratello di Filippo, Cesarino Fava, Boris Cambic, uno slavo amico di Cesarino e padre Ernesto Milan, missionario scalabriano, originario del Vicentino.
In quattro giorni saliamo due volte il canalone attrezzando con corde fisse i punti più difficili. Mano a mano che andiamo avanti cerchiamo un segno qualsiasi che ci faciliti il ritrovamento delle salme.
A circa duecento metri dalla Sella degli Italiani, Mariano scorse una traccia rossa nella conca di ghiaccio dove emergeva un pezzo della giacca a vento di Pippo, che noi ben conoscevamo. Col pericolo dei blocchi di ghiaccio che sporgevano minacciosi sopra di noi, impiegammo due giorni ad estrarre Pippo dal ghiaccio e sotto di lui la salma di Marco. Scavando con le picozze, piccole schegge ghiacciate, che si attaccavano alle nostre giacche a vento, sciogliendosi lasciavano una piccola macchia rossa che non ero capace di sopportare. I rossi tramonti di quei quattro giorni, sembravano dipinti di rosso sangue. Legammo le due salme dure come fossero appena estratte da un freezer. Un abbraccio fra due morti. Cesarino con un colpo di picozza, tagliò l'anulare di Pippo per togliere l'anello matrimoniale da portare a Maria Luisa, come da sua richiesta. Durante la discesa, i corpi si infilarono in un crepaccio, a seicento metri dalla base. Malgrado ogni rischioso tentativo, non riuscimmo a recuperarli. Arrivammo alla base, accolti da Attilio, padre Ernesto e Boris.
Il giorno dopo padre Ernesto celebrò una messa vicino al cippo di rocce contornato dalla corda che Toni Egger aveva attorno alla vita quando morì nella discesa dal Torre dopo aver raggiunto la cima con Cesare Maestri. Diciassette anni fa furono trovati i suoi resti alla base del ghiacciaio del Torre. Col magone tornammo alla baracchetta del nostro campo base, sotto il picchiare della pioggia sul telo di nylon che riparava il piccolo rifugio. Padre Ernesto celebrò ancora una santa messa, dicendoci parole di conforto nella piccola omelia. Cantammo “Signore delle Cime”, carichi di tutte le nostre cose scendemmo al Parque. Malgrado la triste atmosfera ci pensò Mariano a farci capire che la vita continuava comunque.
Giunti al Parque sapemmo che i Ragni di Lecco, guidati da Casimiro Ferrari stavano salendo il Pilone che nel 1972 avevamo attaccato anche noi. Mi misi in contatto con Casimiro e gli dissi di vincere anche per noi. Poi ce ne tornammo a casa in Italia.
Per quel tentativo fummo insigniti dell'“Ordine del Cardo”, che certamente fu gradito. E' superfluo dire che saremmo stati più felici di riportare le salme a valle. Per i loro cari e anche per noi.
1983 - Patagonia come "Medicina"
Febbraio, estate australe. Già ne avevo parlato con mia moglie. Da tempo mi trascinavo una forte depressione. Il neurologo mi disse che per guarire dovevo uscire dal mio ambiente usuale.
Mia suocera e la mia prozia sedute appaiate su un piccolo divano erano intente a lavorare di uncinetto. Siccome erano un po' sorde dissi con la voce forte fra serio e faceto: “Vago 'n Merica!”. L'Angelina disse, sorpresa ed incredula: “Ancora?” Invece mia suocera Mincota, da sotto gli occhiali, alzando la testa mi disse: “Ma set anca mat?”. Merica, Merica, Merica: cosa saralo stà Merica, Merica, Merica, l'è un mazzolin de fior. Sono le parole cantate ancora da quando i nostri avi erano i primi emigranti nel Nuovo Mondo.
L'undici febbraio '83 parto da solo da Roma con un volo dell'Avianca, società colombiana con costi contenuti. Dall'aeroporto internazionale di Ezeiza in Argentina, arrivai a Marcos Paz da Cesarino Fava. Speravo che la sua presenza potesse essere una medicina per me. Cesarino è un personaggio talmente rasserenante che non hai mai finito di conoscere.
Con la Ford di Fausto Barozzi, un roveretano trapiantato in Argentina da più di quarant'anni, partimmo in quattro, Fausto, i due Fava padre e figlio ed io, l'ospite. Stiamo viaggiando sulla Ruta 40, la strada che corre parallela alla Cordigliera, stipati con armi e bagagli. Obiettivo una zona alpinisticamente inesplorata del lago San Martin nella Patagonia Argentina.
Ad un certo punto incrociando due macchine ci fermiamo perchè ci sono alcune persone che stanno armeggiando attorno ad una ruota.
Fra gli utenti delle piste patagoniche esiste un tacito accordo per cui chiunque si imbatte in un automobilista in panne si ferma, si accerta di che si tratta e, se del caso, presta immediatamente e gratuitamente il suo aiuto.
Io me ne sto un po' discosto a scattare fotografie. Cesarino s'avvicina alle due macchine e poco dopo mi chiama. "Vieni qui, Armando". Signori, ecco Armando Aste.
Gli interpellati, consultato un libro che riconosco per il mio "Pilastri del cielo" che riporta una mia foto, dicono fra loro: "Si, è proprio lui. E mi stringono la mano".
Era successo che, mentre stavano cambiando una gomma alla camionetta di una signora che viaggiava da sola, avevano avuto modo di parlare con Cesarino. Accortosi che erano italiani aveva chiesto come mai si trovavano in Patagonia. Al che rispondevano che, avendo letto il libro di Armando Aste, erano rimasti contagiati ed avevano voluto vedere con i loro occhi.
Ma voi conoscete Aste? No, non lo conosciamo ma contiamo di andarlo a trovare a Rovereto al nostro ritorno.
Non occorre che aspettiate tanto, ve lo presento subito.
Veramente, quanto è piccolo il mondo!
Con Cesarino Fava salimmo una bella torre, che chiamammo “Torre Città della Quercia”, una cima che sorge nel mezzo di un limitato acrocoro che porta i segni di sconvolgimenti tettonici di epoche lontane.
In vetta alla nostra Torre restammo alcuni momenti supini, a guardare i numerosi condor volteggiare regali e curiosi intorno a noi. Chiudo gli occhi e penso: “Andare, sognando le ali, verso più alti cieli e salire scostando i veli del firmamento. Portando il tormento di orizzonti immortali, andare verso la conoscenza per liberi cieli zampillanti di stelle”.
Apro gli occhi. Il Cerro Astillado, la guglia regina di questo paradiso che non abbiamo potuto salire è là. Astillado vuol dire scheggiato.
In tutta questa nostra avventura avevamo assommato diecimila chilometri, in gran parte in terra battuta.
Ripresi l'aereo e tornai da mia moglie perfettamente guarito. Tutto è bene quello che finisce bene.