"Tutti i miei compagni di montagna erano prima di ogni cosa degli amici e tali sono rimasti.
Nei momenti belli come nei momenti difficili e dolorosi, li ho avuti vicini.”
Compagni Spediz.Città Rovereto

Il primo vero e indimenticabile compagno di cordata è stato Fausto Susatti; in segutto ho avuto la fortuna di ripetere e aprire vie di rilievo, con tanti grandi alpinisti, descritte nelle "VIE NOTEVOLI" e "SPEDIZIONI".
In ordine cronologico: Fausto Susatti, Franco Salice, Angelo Miorandi, Andrea Oggioni, Josve Aiazzi, Franco Solina, Toni Gross, Milo Navasa, Armando Biancardi, Marino Stenico, Nando Nusdeo, Casimiro Ferrari, Pierlorenzo Acquistapace, Andrea Mellano, Romano Perego, Gildo Airoldi, Giancarlo Frigieri, Carlo Casati, Nando Nusdeo, Vasco Taldo, Cesarino Fava, Filippo Frasson, Mariano Frizzera, Graziano Maffei, Sergio Martini, Ferdi Schneider, Mariano Marisa, Mario Manica e Fabrizio Defrancesco.
Non posso però non ricordate anche i tanti amici con i quali mi sono legato, pur con qualche errore di precedenza e forse qualche nome che ora mi sfugge. Sergio Dorigotti, Camillo Gaifas, Bruno Manica, Carlo Manica, Mario Rippa, Michele Pedri, Gianni e Silvio Agostini, Mario Moser, Sandro Petrolli, Giuliano Tovazzi, Cesare (junior) Fava, don Luigi Garniga, padre Ernesto Milan, Attilio Frasson, Boris Cambic, Mario Castellazzo, Luca Prosser, Luciano Santini, Mario Rinaldi, Gianni Arcari, Piero Ravà.
Ma il compagno che la Provvidenza mi ha messo vicino al momento giusto delle mie possibilità migliori è stato Franco Solina al quale voglio bene come a un fratello.

Fausto Susatti

Fausto Susatti

Fausto Susatti è stato il mio primo vero importante compagno di cordata. Accademico del CAI, alpinista tenacissimo di eccezionale forza fisica e di pari generosità e modestia, era nato a Cismon del Grappa (Vicenza) il 23 gennaio 1921.
Residente fin dalla prima giovinezza a Riva del Garda (Trento) dove lavorava in proprio, assieme al padre, in un piccolo laboratorio di falegname. Caduto il 13 settembre 1959 mentre ancora sul primo tiro di corda, tentava di aprire una via sullo spigolo Sud-Ovest della Figlia di Cima Canali nelle Pale di San Martino.

Ci siamo incontrati in vetta alla cima Margherita in Brenta, non credo sia stato solo un incontro occasionale, perché niente accade per caso. Con lui abbiamo preso il volo. Abbiamo ripetuto tutte le vie più difficili dell'epoca in Dolomiti e una delle prime ripetizioni della Bonatti-Ghigo al Gran Capucin. Con Fausto ho aperto tre belle Vie nuove (1950, Adamello, Ago di Nardis in val Gabbiolo - 1953, Brenta, Cima Sud di Pratofiorito. Parete Est - 1954, Punta Civetta, Parete Nord Ovest, "Via per la fessura di destra"). Era fortissimo, generoso e mi ha dato molto.
Fausto era riuscito a trovare un vecchio carrozzino da attaccare alla sua moto DKV 350. Quando andammo a ripetere la Via Costantini-Apollonio al Pilastro della Tofana di Rozes, ancora prima del passo Falzarego, dovemmo fermarci per far saldare l'attacco del carrozzino alla moto. Poi giungemmo al rifugio Dibona ai piedi del Pilastro. Lì incontrammo il celebre Verzi, che, rivolto ad un giovane appassionato di alpinismo, gli disse: “Vedi, ragazzo, domani gli uomini saliranno lassù”. Il mattino successivo, mentre andavamo all'attacco, sentimmo un urogallo che esibiva il suo canto. Eravamo ai primi di giugno. In due giorni di salita meravigliosa giungemmo in vetta. Ricordo che al comodo bivacco, sotto la “Schiena di mulo”, scolpiti con la punta del martello, trovammo i nomi di Oggioni e Aiazzi, che qualche anno prima avevano fatto la prima invernale di quell'itinerario, che allora era considerato uno dei più interessanti delle Dolomiti. Oggioni e Aiazzi avevano iniziato il grande alpinismo invernale sui Monti Pallidi.

Fondamentalmente attratto dalle pure altezze dei monti, era uno che si interrogava sui temi importanti della vita e le risposte le cercava scalando montagne. E' stato un peccato che, successivamente, per intromissioni esterne irresponsabili, la nostra cordata si sia sciolta. Lo dico con rimpianto, supportato dal fatto che nessuno di coloro che si sono legati alla mia corda, ha mai avuto il più piccolo incidente. Non so se questa sia stata solo fortuna o altro. Comunque penso che se Fausto fosse sempre stato con me, forse potrebbe essere qui a raccontarla.

Ho conosciuto i suoi poveri genitori e il fratello Sergio. Aveva anche una sorella che aveva perso la vita a causa del bombardamento aereo della Via Prepositura a Trento. Siccome possedeva la rara virtù della modestia, solo io so che è stato ed era un grande. A tanti anni dalla sua scomparsa, ancora oggi lo ricordo nelle mie preghiere. E' un mio bisogno del cuore, di riconoscenza, di ricordarlo al Padre Celeste, perché so che era un buono.

Ciao Fausto

Si muove silenzioso il funereo corteo.
Fate silenzio.
Vivi che accompagnano un morto. O morti che seguono un uomo. Iddio che vede oltre la carne lo sa.

Eri taciturno e non Ti andava si parlasse di Te. Non avesti "gloria" Tu, non avesti "denaro" a palate, non fosti posto su un piedestallo . Ma Tu eri un valoroso.
Come i primi uomini che ebbero l'ardire di saltare in groppa ad un cavallo e fondere il loro respiro con l'ansito dell'animale selvaggio. Come coloro che per primi osarono sfidare i fluttiabbandonandosi ad un esile legno. Come gli uomini del K2, anche Tu eri un esemplare magnifico della "razza umana".
Ciao Fausto.
Arrivederci a quando Ti sveglierai dal sospirato riposo. A quando noi usciremo da questa lunga notte e, incominceremo a vivere.
"Signore è morto un uomo che noi chiamiamo prode. DonaGli la pace, la Tua pace".

Nell'obitorio del cimitero hanno scoperchiato la bara perchè potessimo dirTi "ciao" ancora una volta e sul momento il fatto mi porta a un'altra ora triste.
Vedo con gli occhi della mente il caro maestro Ezio De Marchi che si china a baciare in fronte il mio povero fratello Antonio, prima che Lo richiudana nella bara... Non dimenticherò mai quel gesto. Io avrei voluto, ma non fui capace di ripeterlo e mi sentii un vile. Ma era più forte di me. Qualcosa mi teneva inchiodato, incapace di farlo,
Ora ti bacio in fronte Fausto, povero Amico, e questo bacio è anche per quello che non seppi dare, allora, al mio povero Fratello.

Non Ti avrò più nella mia corda ma sarai per sempre nel mio cuore.
Andrò a trovare la tua mamma e le dirò che eri buono. Entrerò nella tua stanza. E guarderò tutte quelle cose che nessuno ha più toccato dalla tua dipartenza. Quelle cose che mi parleranno di Te e che per molti sono mezzo di rinnovamento e di edificazione.
E non soltanto gli attrezzi del mestiere.

Dal volume: "PILASTRI DEL CIELO" di Armando Aste

Franco Solina

Franco Solina

Franco Solina di Brescia, accademico del CAI e del GISM, (è stato direttore della scuola di roccia "Ugolini" di Brescia) è un tipo asciutto, atletico, rasserenante.
Abituato, direi costretto fin da giovinetto a lottare per migliorarsi. Operaio, poi impegato, ora in pensione. Collabora al Giornale di Brescia, servendosi magistralmente della macchina fotografica, pubblicando libri e guide alpinistiche.
Troppe da elencare le vie nuove aperte con Franco che sono descritte alla voce "SCALATE NOTEVOLI". Qui ricordo solo la Via dell'Ideale sulla Parete d'Argento alla Sud della Marmolada d'Ombretta. Era il 1964 quando tracciammo questa via, dopo 54 ore di arrampicata e cinque bivacchi, a pochi tiri dall'uscita trovammo un bel terrazzino e lì restammo a lungo in contemplazione chiedendoci chi ce lo facesse fare di andarci a rinchiudere in un rifugio.
Una realizzazione che ha dato il “la” all'alpinismo moderno in Marmolada, purtroppo in seguito trasformata nella più grande palestra del mondo.

La scintilla che fece nascere la cordata Aste-Solina - una cordata lunga una vita - risale al 1955 quando, quasi correndo, stavo divallando per il serpeggiante sentiero dell'alta Val D'Ambiez, mi giunse ormai lontana la voce: "Armandooo, cerchi un compagno per il Druuu?"
Come una eco ricorrente conservo nel cuore il ricordo di quell'accadimento per me determinante. Perluigi Girardi, anche lui di Brescia, mi gridava il messaggio-offerta per il concittadino Franco Solina che stava arrampicando sulla Fox-Stenico appunto alla Cima D'Ambiez. Sarò sempre grato debitore di quell'incontro che certamente non fu casuale ma, credo, un segno della Provvidenza.
Franco è un generoso e sicuramente a sua insaputa possiede in grande misura la rara virtù della modestia, quella che mi ha incatenato il cuore.
Una volta, ricordo bene, all'offerta di guidare la salita, la sua risposta chiara, senza forzatura di sorta, ha cancellato in me ogni traccia di rimorso perchè avevo temuto di essere un ambizioso egoista, quasi un prevaricatore nei suoi confronti.
"Davanti a te Armando, no".
I duri di cervice potranno magari pensare ad un presunto complesso di inferiorità sul piano delle capacità tecniche. Ebbene, niente di più erraro. Le parole di Franco sono semplicemente il frutto dell'affetto incondizionato per questo suo amico "difficile". Franco Solina è un fortissimo, eccezionale alpinista completo, ma prima ancora è un uomo nel senso più alto del termine.
Franco è sempre stato una certezza per me, un punto fermo, pur con tutti i limiti della condizione umana che ognuno si porta dentro. Mi ha dato tanto. Il mio alpinismo ha attinto molto da questo compagno di cordata, dalla sua forza fisica e morale, dalla sua determinazione ragionata, dalla sua fiducia senza remore e senza limiti. Un uomo tanto intelligente da intuire quando mi trovavo in crisi di coraggio e allora, subito, dava un colpetto all'altalena fino a farla volare a certezza di vittoria.

Ricordi e riflessioni.
Se la volontà e la fortuna si dessero la mano, quanti bivacchi in meno e quante vie in più si potrebbero contare. Il "Diedro Philipp" in Civetta, per esempio, potrebbe invece chiamarsi diversamente.
Avevamo già portato la roba all'attacco sopra il camino iniziale. Poi eravamo andati al Coldai per ritornare di buon mattino. Intanto, per passare il tempo, mi ero messo ad arrampicare su dei grossi blocchi alquanto sopra al rifugio.
Sarò stato a sette-otto metri da terra, impegnato in un passaggio senza appoggi, quando mi si staccò l'unico appiglio per le mani e mi trovai a cadere in posizione eretta. Avevo avuto l'avvertenza istintiva di scostarmi dalla parete con un colpo di piede. Giungendo a terra, dopo un ortodosso piegamento sulle gambe, ebbi la sfortuna di finire con la coscia sinistra su un sasso più alto degli altri ... Così Franco, il giorno dopo, dovette andare a riprendere il materiale all'attacco del diedro. E quando, a fine settembre,potei tornare con Josve, il viennese Philipp aveva appena aperto la sua formidabile via. Non ci riuscì neppure la prima ripetizione perchè dopo il solito bivacco "bagnato" fummo ancora ricacciati da Giove Pluvio.

Al ritorno da una via nuova su un campanile allora inaccesso e innominato che fronteggia a Est malga Flavona, nel gruppo del Brenta, che ora si chiama Campanile "Giovanni Spagnolli", mi ha colpito, la sua risposta, ad una precisa domanda di mia moglie:
"Armando è sempre lo stesso, il tempo per lui non è passato".
E' passato eccome, io dico, ma grazie lo stesso caro Franco.
Ancora adesso, in ripetuti tentativi pur con misurata delicatezza e tanta discrezione torna a dire "dai che andiamo ancora una volta in Patagonia".
Solo il cielo sa come vorrei, ma da quando mio fratello Antonio è stato colpito da una terribile malattia, non ho più voluto nè potuto ascoltare l'ansia di scalare montagne che ancora mi brucia dentro. Franco sa queste cose ma sa pure che nella nostra piccola storia dell'ardimento la fantastica triade di "prime" in Marmolada, il Focobon, lo Spiz d'Agner Nord, l'Eiger, l'avventura della Torre Innominata del Paine, la Via Brescia alla Cima Tosa e tante altre creazioni dello spirito continueranno a gettare luce sul nostro cammino di ogni giorno. Perchè, in ultima analisi, la vera avventura umana sta nel "normale" e forse ripetitivo vivere quotidiano che magari nasconde tanti anonimi eroismi, in preparazione all'incontro con Dio.
Per un credente è questo il senso da dare alla propria esistenza. Mentre il tempo si fa breve. Sono sicuro che entrambi faremo il possibile perchè la nostra cordata rimanga tale anche "dopo", per sempre.

Dal volume: "PILASTRI DEL CIELO" di Armando Aste

Angelo Miorandi

Angelo Miorandi Angelo Miorandi di Rovereto era il migliore dei miei allievi. Avevo imparato ad apprezzarlo come uomo, prima ancora che come alpinista coi fiocchi. Durante il servizio militare nel Corpo degli Alpini faceva l'istruttore di roccia. Successivamente, era emigrato in Germania per costruire per sé e la sua famiglia una avvenire dignitoso e sicuro.

Angelo Miorandi dalla palestra di Castel Corno, una bella guglia sopra Isera (Rovereto), è passato direttamente alle grandi salite. Angelo, è più che un amico, più che un compagno di cordata, quasi un fratello.
Con lui abbiamo fatto nel 1955, "Via Della Concordia" sulla muraglia dell'Ambiez - 1957, "Via Carlesso-Sandri" alla Torre Trieste, prima invernale - 1961, "Via Oggioni" allo Spiz d'Agner Nord - 1961, "Via Rovereto" sullo Spallone del Campanile Basso - 1971, tentativo al Pilone Orientale del Fritz Roy, Patagonia.
Poi le ripetizioni che ha fatto da capocordata.

Andrea Oggioni e Josve Aiazzi

Andrea Oggioni con Josve Aiazzi

Andrea Oggioni e Josve Aiazzi, la migliore cordata degli anni Cinquanta. Andrea il piccolo-grande Davide dell'alpinismo, un tutt'uno con il suo impareggiabile compagno di cordata. Loro, in quel tempo, formavano la più forte cordata, non solo italiana. Erano stati i primi ad affrontare d'inverno la Via Costantini-Appollonio sul pilastro della Tofana di Rozes, allora considerata fra le più difficili delle Dolomiti. Poi, la prima ripetizione della cima Su Alto in Civetta per la Via Livanos-Gabriel, che aveva rappresentato un passo avanti nella valutazione delle difficoltà. Vie nuove e salite di prestigio su tutta la cerchia delle Alpi. Poi le spedizioni. Ce n'è per tutti, mi pare. A noi rimane il rimpianto di averli perduti. Il primo in modo drammatico sul Pilone del Freney, il secondo perché aveva finito il suo percorso.
Nel 1955 a comado alternato abbiamo aperto la Via della Concordia sulla Cima d'Ambiez. Con Aiazzi e Solina nel 1960 ho realizzato la Via Fausto Susatti allo Spiz d'agner Nord.
Ma, a proposito di Aiazzi, che a volte era un simpatico burlone, ricordo questa piccola perla. Eravamo andati a ripetere “per allenamento” lo Spigolo degli Scoiattoli sulla cima Ovest di Lavaredo. Di questo fantastico spigolo me ne aveva parlato entusiasticamente il brianzolo Barba Mario Burini e, alla prova dei fatti, devo dire che aveva ragione. Incorporato appunto nella cima Ovest, visto frontalmente appare come una immaginosa scultura di un gigante artista. Un tiro sopra il grande strapiombo iniziale della via si arriva ad una comoda nicchia, proprio sul filo dello spigolo, abbastanza grande da poter ospitare due persone sedute e ben assicurate con degli ottimi chiodi. Intanto, aveva cominciato a grandinare e così pensammo bene di fermarci lì a bivaccare. Josve, malgrado il posto comunque esiguo, incurante del maltempo, si sentiva tranquillo e disse ilare: “da questo buco non mi tolgono nemmeno con il cavatappi”.

Andrea Oggioni, ricordo di un amico

Andrea Oggioni ai resinelli

Monte Bianco, Colle dell’Innominata, 16 luglio 1961
In una notte di tregenda, vittima del suo altruismo, si spegneva Andrea Oggioni, accademico del CAI. Il grandissimo Davide degli anni cinquanta.
E’ passato tanto tempo, eppure la leggenda attingente al mito si arrichisce sempre più mano a mano che matura il senso da dare all’inesausto salire che sempre si rinnova.
Le inebrianti battaglie conseguenti alla scoperta della dignità di essere uomini. Battaglie drammatiche e sublimi. Quelle del riscatto, della vittoria su se stessi, la ribellione ai propri limiti per un allargamento dei confini della conoscenza. Le montagne come estrinsecazione materializzata dell’ascendente cammino.
Quando ogni scalata, frutto di sconosciuti superamenti, diventa un’ascesa, un rimettere le ali al segreto ardimento.
Ricerca, coraggio, umiltà, discrezione, generosità, concretezza: questo era Andrea Oggioni. Impegno e virtù non dei campioni, non degli eroi, termini abusati sui quali la semantica si è smarrita, ma semplicemente di coloro che sono uomini, uomini veri e basta.
Penso al piccolo grande Andrea sulla Nord Est del Pizzo Badile, in abbigliamento da operaio di fabbrica. Penso ancora a Lui uscito dalla parete Nord della Cima Ovest di Lavaredo che scende a piedi nudi perché le cosiddette pedule, forse cucite da sua madre, si erano letteralmente sbriciolate durante la salita.
Penso al volo del suo compagno e fraterno amico Josve Aiazzi, al termine della famosa traversata, trattenuto da un trefolo della corda di canapa.
Oggioni, il più giovane accademico del suo tempo e forse di tutta la storia del Sodalizio. A diciannove anni aveva già al suo attivo la trilogia del grande Ricardo Cassin “cuor di leone”: Lavaredo, Badile, Jorasses. Sembrerebbe facile per i campioni dell’ultima generazione. Ma noi sappiamo quante barriere psicologiche si sono dovute superare. Sappiamo che ogni cosa va inquadrata nel suo tempo ed anche il “come” e soprattutto il “perchè” hanno una importanza determinante.
Con quella sua tuta da meccanico, con quelle “ciabattine” di pezza consunte, con quella miracolosa corda di canapa. Andrea diventa veramente Davide che combatte la sua battaglia del riscatto.
Un uomo semplice e buono, di estrazione contadina e operaia che dall’anonima e necessaria normalità della vita quotidiana ha saputo innalzarsi e rimettere continuamente le ali dell’inesausto ardimento.
Il fascino della sfida alle paure antiche e nuove, alle frustrazioni. La faticosa costruzione e la ricerca di una dimensione sempre nuova attraverso l’appassionante amplesso con le montane. L’insaziabile fame di orizzonti infiniti.
Con i pochi mezzi che aveva ha saputo esprimersi, ha saputo dare un senso non effimero alla sua pur breve esistenza.
Soprattutto ha saputo farsi amare, perché tanto ha amato. Per questo va additato come modello per tutti coloro che avranno mente e cuore aperti a coglierne il messaggio.
La “sua” Brenta Alta, la “sua” Cima d’Ambiez, la “sua” Torre Bignami, tanto per ricordarne qualcuna, sono creazioni dello spirito, la trasfigurazione materializzata di un momento poetico. E questo accade magari così, per germinazione spontanea, per un’ansia, per qualcosa che hai dentro da sempre come eredità ancestrale.
Lassù, sulla Via della Concordia, noi, assieme, abbiamo pregato. Senza paraventi, vincendo la piccola viltà del rispetto umano che a volte, copriamo falsamente col pudore che è un’altra cosa, abbiamo fatto un passo avanti, ci siamo sentiti un poco migliori. Un bene che rimane e travalica gli egoismi, le ambizioni, i personalismi.
Quell’amore che avvicina l’io ideale all’io reale. Quello che vorresti essere e quello che sei concretamente.
Trent’anni fa, al Colle dell’Innominata si è spenta una stella di prima grandezza nel firmamento alpinistico. E’ rimasto un insegnamento adamantino. E’ rimasto l’amore, quello vero. Il solo scopo per cui valga la pena spendere la propria vita. Gesù stesso, Figlio di Dio e nostro fratello, ha detto che non c’è amore più grande che “Dare la vita per i propri amici”.
La mamma di Andrea ha voluto che fosse dato a me il completo di piuma che Egli indossava nell’ultima ascesa.
E’ stato un dono che ancora mi commuove. Il suo duvet, come simbolo io l’ho portato bivaccando e pregando su tutte le montagne che mi è stato concesso di salire. Perché Andrea ed io, assieme a tanti altri, siamo amici per sempre. Parlo da uomo e da alpinista.
Ma parlo soprattutto da credente. La Via Oggioni sulla Torre Sud del Paine, ora Torre Padre Alberto Maria De Agostini, la Cima di Andrea Oggioni nello stesso gruppo delle Ande Patagoniche, la Via che gli abbiamo dedicato sullo Spiz d’Agner Nord non avrebbero senso se non volessero significare un ricordo che non può morire.
Una preghiera di suffragio ripetuta fino a quando, di nuovo e per sempre, ci potremo rincontrare nella Comunità dei Santi.
Davanti alla morte non ci sono finzioni. Non contano gli equilibrismi e i compromessi. Non conta la retorica e non importa magari di essere tacciati erroneamente di moralismo, quale offesa o comunque come aspetto squalificante, dagli ignoranti. Non conta nemmeno la poesia. Conta quanto hai lottato per migliorarti, per cercare le risposte ai molti perché della vita. Conta l’impegno che hai profuso.
Questo il caro Andrea lo aveva capito perché possedeva in sommo grado l’intelligenza del cuore. Aveva capito che diversamente sarebbe inutile andare a cercare sulle vette dei monti.
Un’ultima riflessione obiettiva, che non intende assolutamente suonare a detrimento dell’uomo e dell’alpinista, ma ne illumina semmai ancor più la personalità.
Malgrado la bravura e l’eccezzionalità dei risultati, a volte un velo di tristezza aleggiava sul suo volto di ragazzo cresciuto troppo in fretta. Forse perché aveva imparato che arrampicare non è tutto. Forse per la percezione del tempo che cancella le illusioni e ridimensiona le scelte.
O forse per l’anima prigioniera.
Una emblematica analogia con l’indimenticabile maestro Emilio Comici.

Dal volume: "PILASTRI DEL CIELO" di Armando Aste

Toni Gross

Toni Gross foto

Toni Gross, grande amico, da Meida in Val di Fassa. Era un artista, uno scultore, direttore della Scuola d'arte di Vigo di Fassa e guida alpina.

E' stato mio compagno nella salita che nel 1958 dedicammo a “Ezio Polo” sulla Parete Sud dell'Anticima del Piz Serauta. Con quella parete mi era rimasto il dente avvelenato perchè per tre volte, con Aiazzi, avevo tentato invano.

Durante i miei bivacchi in parete, nelle solitarie della Via Buhl alla Roda di Vael e della Via Rizzi-Gross allo Spigolo della Vallaccia l'amico Toni, da sotto, mi faceva sentire la sua voce di incoraggiamento e mi faceva segnali luminosi con una pila elettrica e io gli rispondevo accendendo un cerino pur visibile nella notte fonda.

Milo Navasa

Milo Navasa

Milo Navasa Foto

Milo Navasa (1925-2009), un amico originalissimo, intelligente, estroverso dalle battute fulminanti. Uno sportivo integrale: pugilato, innamorato delle profondità marine, ma soprattutto eccelso alpinista che merita di essere annoverato fra i grandi del suo tempo. Milo era un cervellone e un insegnante con grandi potenzialità. Uno di quei personaggi che non si possono dimenticare perché ti rimangono nel cuore. Assieme a Giancarlo Biasin, sono stati i due alpinisti super di Verona.
Povero grande Milo. Ci eravamo incontrati al rifugio Brentei nell'estate '59 con la complicità del mitico Bruno Detassis. Il giorno dopo la nostra cordata era impegnata sul Gran Diedro Nord del Crozzon di Brenta tracciando forse la via più bella sulla montagna più montagna del Brenta. In seguito Milo mi è stato compagno sulla variante diretta all'Anticima del Serauta. E’ stato uno dei miei compagni di cordata più forti.
Con Marino Stenico, ha poi realizzato la Direttissima sulla Parete Sud del Campanile Basso di Brenta. Nel 1964 «firma» la prima ascensione sul Pilastro Rosso della Cima Brenta alta con Baschera e Dal Bosco. L'anno successivo il trio disegna un capolavoro di arrampicata sulla parete nord della Rocchetta Alta di Bosconero. Ma il suo capolavoro, con l'amico Dal Bosco, rimane la stupenda Via Cristina sullo Spallone del Sassolungo. Un itinerario fra i più belli e difficili delle Dolomiti.
Mi rammarico di non essere andato a trovarlo in tempo, quando era ancora in vita, in una casa di soggiorno di Verona.

Armando Biancardi

Biancardi Armando Foto

Armando Biancardi (1918-1997), torinese, laureato in scienze economiche, giornalista e scrittore, il cantore del Marguareis, Alpi Marittime. Ha collaborato ai principali quotidiani torinesi (Stampa sera, Gazzetta, Gazzetta sera, Tuttosport) e a riviste italiane ed estere. Ha vinto vari premi letterari sulle tematiche della montagna. Medaglia d'oro del CAI.
Salite classiche su tutta la cerchia alpina oltre alle molte vie nuove nel Marguareis. Penna, corda, chiodi e piccozza. Un alpinista poeta delle altezze. Scrivendo a volte col fioretto, a volte con la spada, altre con la mazza, che, pur dicendo cose vere, gli hanno procurato l'ostracismo dei suoi “amici” torinesi che non gli hanno permesso di essere accolto nell'Accademico del CAI.
Uno dei miei amici e maestri più cari, del quale serbo un ricordo incancellabile delle vere ascensioni trascendenti vissute assieme. Abbiamo fatto due belle vie nuove nel meraviglioso gruppo del Marguareis, che considerava la montagna ideale: 1960, Punta Oreste Gastone - 1961, Via Tino Prato.
Armando, nei miei confronti, si definisce l'“altro Armando”, perché ha sempre saputo di essermi entrato nel cuore.

L'altro Armando

"Ecco prova un po' a gridare da qui. Prova, e l'eco si ripeterà sette volte"... Eravamo ai piedi della grande bastionata fra Cima dell'Armusso e Castello delle Aquile. Risento ancora quelle eco a non finire, come dal fondo d'un pozzo tremare nell'aria e giungere sempre più affievolite, dentro di noi, commossi. Rivedo i paretoni della catena del Marguareis, cenerentola reginetta delle Marittime Orientali, paretoni che si specchiano con i loro toni freddi e caldi insieme nel laghetto. E, su quella "sinfonia" giallo-grigio-rossastra con aspetti dolomitici, via a perdita d'occhio per cinque chilometri in lunghezza (una gara atletica di mezzofondo, "note" che si alzano, con pareti a piombo, per più di seicento metri.
Riassaporo i cieli tirati dal vento, d'un azzurro che prelude quelli del mare imminente. E apprendo dall'amico che siamo in un regno d'eccezione. Non lontano, passavano le antiche "vie del sale", di romana memoria, fra Liguria e Piemonte. Sotto il clima rivierasco, i rododendri straripano due volte all'anno. Nelle cacce di settembre cadono numerosissimi camosci. La geologia apre sulle pareti Nord pagine stupefacenti, con balenotteri fossili presso le vette. Alla radice delle vallate, trovano sorgente acque radioattive pressoché uniche in Italia. Sulle balze delle stesse valli si aprono grotte, con abissi fra i più profondi d'Europa, esplorati solo in questi ultimi anni. Questa è la montagna dell'altro Armando, di Armando Biancardi. Vi è capitato poco più che ragazzo e a lei ha fatto ritorno, fedelmente, per tutta la vita.
* * *
Lassù, al rifugio Garelli, uno di quei rifugetti che sono ancora così come dovrebbero: dove non c'è custode, e per entrarci bisogna prelevare la chiave a fondovalle. Lassù, dove la vita ha un sano e santo sapore arcaico, e più nessuno viene a turbare il vostro "ritiro", abbiamo vissuto giorni indimenticabili.
Su quelle rocce, non prive di pericoli per la loro friabilità, abbiamo aperto alcune belle vie: allo spigolo della Tino Prato (con bivacco), al pilastro della Oreste Gastone. Vie sostenute, di quinto e di sesto, che vanno ad arricchire il bagaglio dell'amico. Un bagaglio cospicuo se, oltre a circa seicento ripetizioni sull'intera cerchia alpina, dalle Marittime alle Dolomiti, con "invernali", salite di ghiaccio, sci-alpinistiche, e un bel pizzico di "quattromila", conta qualcosa come sessantotto prime ascensioni, di cui alcune da "solo" e da "capo-corda" e di cui non poche di difficoltà estrema. Se a taluno parrà "niente" tutto questo..., una cosa è comunque certa. Nessun alpinista torinese come lui, né presente né passato, può vantare un numero di "prime" che possa anche solo avvicinarglisi. E, questo, può seccare a molti...
Ma il suo maggiore titolo alpinistico - la malattia cronica, secondo lui - è di aver aperto tutte le vie al Marguareis, ripetendo le altre poche, nessuna esclusa. E io mi chiedo proprio quali altri dei sedicenti "grandi" alpinisti abbiano al loro attivo "tutte" le vie dell'intera catena.
Si sente spesso parlare di "innamorati" della montagna che vivono per essa. l'"altro Armando" è uno di questi.
Ma egli non è, né solo uno sportivo, né solo un intellettuale.. Ma l'uno e l'altro allo stesso tempo. Per questo, accanto all'azione alpinistica, a sua ispirazione, può vantare qualcosa come cinquecento articoli di montagna, pubblicati un po' ovunque, compresi i maggiori quotidiani. Un libro di narrativa "La voce delle altezze" (premio Cortina) e uno studio storico che, con quella serietà e con quella competenza, poteva stendere solo lui: "Cento anni di alpinismo torinese". E poiché è più facile da "seduti" leggere qualcosa di montagna che non ripetere qualche via aperta dall'amico, ecco che Biancardi ha la fama di "scrittore"... (Forse per questo non l'hanno voluto all'accademico).
Per l'attività letteraria l'amico ha ottenuto, a titolo di riconoscimento, l'assegnazione di undici, dico "undici" premi nazionali e internazionali, e fra questi, due "Saint Vincent". Quale altro giornalista-scrittore italiano, alpinista o non alpinista, può vantare pari numero? La motivazione d'uno di questi riconoscimenti parla chiaro: "Ha contribuito in modo determinante all'illustrazione della montagna e può contare su una notevolissima esperienza personale di alpinismo".
Per questa "completezza" soprattutto per questo ponderoso insieme, e delle "prime" e della parte culturale, io lo considero un "maestro". Da lui ho imparato e continuo a imparare moltissimo.

Dal volume: "PILASTRI DEL CIELO" di Armando Aste

Marino Stenico

Stenico Marino Foto

Marino Stenico (1916-1978), un altro mio grande amico e maestro. Medaglia d'oro del CAI e membro del GHM francese. Sempre al passo con i giovani, perché penso che non sarebbe stato capace di invecchiare. Scopritore di nuovi talenti, uomo di grande intelligenza e di sicura modestia. Pur essendosi legato con i più forti alpinisti di due generazioni susseguenti, ha sempre avuto una sorta di rispetto reverenziale per i grandi che lo hanno preceduto sulle fascinose pareti rocciose. Per me è stato il più grande alpinista dilettante. Assieme alla moglie Annetta, perdutamente e sempre innamorata del suo Marino, è stato una memoria storica dell'alpinismo. Io gli devo molto. Durante la mia prima solitaria alla Via Couzy sulla Nord della Cima Ovest di Lavaredo, nel 1960, lui mi incoraggiava alla base della parete.
Quel cerchietto d'oro. A Marino, durante la salita della Cassin-Ratti alla Torre Trieste, inavvertitamente uscì dal dito l'anello matrimoniale che, fortunatamente, si fermò su una sporgenza. Milo Navasa, che arrampicava con lui, riuscì a recuperarlo subito, con grande gioia di Marino. Durante la ripetizione della Via Couzy, con Donato Zeni e Lino Trottner, obbligato ad un bivacco in piena bufera sull'orlo di uno strapiombo temendo il peggio disse a Donato: “Dighe a la me Annetta che gò volest sempre ben”. Questo era Marino Stenico, per sfatare la credenza che sia vissuto solo per la montagna.
L'unica via che ho fatto col grande Marino Stenico è sull'inebriante Spigolo Sud Est della Cima dei Mugoni (Catinaccio)

Al mio maestro

Affetto, defernza, gratitudine, commozione, fierezza. Nel cuore e nella mente un subbuglio di sentimenti. Parlare di Marino Stenico, l'uomo e l'alpinista, non è facile. Ma se tu mi chiedi dell'Amico, allora tutto diventa semplice.
Devo riandare con la mente agli anni quaranta. Il caro Remo Decarli, anche lui ormai passato di là del muro, mi portò a Trento con la sua moto a conoscere il grande Marino. Quell'incontro per me, allora come adesso, fu e rimarrà incancellabile. La testata d'angolo del mio alpinismo allora nascente e che ancora continua.
Fu in quella occasione che io, forse dapprima inconsciamente, Lo elessi mio maestro. Per la verità, avevo letto di Lammer, di Preuss, di Comici, di Gervasutti, Soldà, Cassin, Carlesso, Gilberti, Castiglioni, Detassis, Fox e ne ero rimasto affascinato. Ma il mio modello era Lui. MArino Stenico. E non crediate che l'accostamento sia blasfemo.
Uomo, nel tratto e nell'aspetto, irreprensibile. Intelligente e misurato seppur a volte sottilmente ironico. Conversatore acuto e zampillante. Mai banale. Una volta disse che mi invidiava la Fede ma non sapeva di essere il mio maestro. Perchè non gliel'ho mai detto.
Un uomo sempre alla ricerca di Qualcosa. Quasi timoroso di definirLa per il pudore dei propri sentimenti più profondi e veri. E' questo l'aspetto che me lo rese e ancora me lo rende più caro. Assieme alla sincera umiltà, al misurato coraggio.
La sua inarrivabile perfezione tecnica, la longevità atletica costellata da continue risurrezioni, l'entusiasmo sempre nascente per ogni cosa che lo interessava. L'essere sempre attuale nell'impatto con le generazioni nuove. Sono tutte angolazioni importanti della sua esistenza multiforme e adamantina.
Io non sono qui a dire che Marino Stenico era perfetto in tutto e per tutto. Non gli renderei un buon servigio e non sarebbe la verità. Non era un tipo facile. Ma non sono forse i difetti a mettere ancora più in risalto le virtù? Per Marino il piatto della bilancia sale verso il cielo. Quel cielo per la ricerca del quale ha speso, soffrendo, tutta la vita.
Non mi interessa dire della sua intensa e frenetica attività su tutte le montagne che ha potuto avvicinare. Altri potranno raccontare. A me basta conservare nel cuore il ricordo sempre vivo delle ore vissute assieme sullo spigolo dei Mugoni. Mi basta risentire, quasi, la sua voce rasserenante di quando avevo bisogno del suo parere prima di intraprendere una difficile ascensione. E sono orgoglioso di affermare che la prima solitaria alla Via Couzy sulla parete Nord della Cima Ovest di Lavaredo la devo proprio a Lui, alla tranquillità che mi dava sapere della sua presenza alla base della parete.
Quando, proprio sulla Ovest di Lavaredo, si trovò costretto a vivere una delle più sofferte esperienze di montagna, temendo il peggio pregò l'amico Donato Zeni che era con lui di trasmettere, caso mai, un messaggio per la sua Annetta e per Cristina: "Dighe che go volèst sempre ben". Ecco. Questo la voglio proprio sottolineare per fare giustizia di un luogo comune. Perché tutti sanno che Marino Stenico è vissuto, sì, per la montagna. Ma prima c'era la famiglia, l'amicizia, il lavoro, la disponibilità verso gli altri. E poi, naturalmente, l'alpinismo dal quale sapeva trarre insegnamento, entusiasmo e forza per andare avanti nella vita comune di tutti i giorni.
Ora ascoltaci, Signore. Noi tutti Suoi amici ancora di qua dal muro, vogliamo pregare perché un giorno possiamo ricomporre la cordata sulle montagne del cielo.
* * *
Marino Stenico. Caduto il 9 settembre 1978 dalla palestra di roccia di Ragoli in Val Giudicarie, in provincia di Trento all'età di sessantadue anni.
Dopo il suo primo libro "Il Campanile Basso, storia di una montagna" - Edizioni Manfrini, Calliano (TN) - del 1975, sono uscite altre due opere postume: "Alpinismo perché" - Edizioni Ghedina, Cortina - del 1981 e "Una vita di alpinismo", Editrice Nuovi Sentieri di Bepi Pellegrinon, nel dicembre '86.
Mi preme qui segnalare l'opera coraggiosa di questo Editore di Falcade, autore di apprezzati volumi e monografie, che dopo una attività alpinistica di eccellenza si è buttato con entusiasmo e lodevole competenza nel difficile campo dell'editoria di montagna.
Un bravo di cuore, dunque all'amico Bepi Pellegrinon con l'augurio di tante soddisfazioni che il suo importante impegno certamente gli riserva.

Dal volume: "PILASTRI DEL CIELO" di Armando Aste

I compagni alla Nord dell'Eiger

I compagni dell'Eiger Foto

Pierlorenzo Acquistapace, prematuramente scomparso in un incidente stradale. E' stato uno dei componenti della prima ripetizione italiana alla Nord dell'Eiger. Con il compianto Casimiro Ferrari, era un esponente di rilievo dell'alpinismo operaio. Entrambi erano i degni continuatori dell'epopea dei “Ragni di Lecco”. Allora capitanati dal grandissimo Riccardo Cassin.

Franco Solina, l'amico fraterno di tante prime. Di lui ho già parlato compiutamente all'inizio.

Andrea Mellano e Romano Perego, che zitti zitti, alla chetichella, ti inanellano, primi italiani, le tre grandi Nord: Jorasses, Cervino e Eiger. La riscossa degli alpinisti operai posseduti dall'impellente bisogno di andare oltre per migliorarsi. Cercando più vasti orizzonti.

Gildo Airoldi, il più giovane dei ragazzi della prima cordata italiana che è riuscita a salire la famigerata Parete Nord dell'Eiger. Se vuoi sapere qualcosa di più, di quest'uomo, guardagli le mani. Mani nodose e forti come gli artigli dell'aquila. Mani da fabbro che lavorano il ferro. Che ti raccontano tante storie di uomini e di montagne. Che racchiudono la rara virtù della modestia e della mitezza. Storie del riscatto sociale delle generazioni operaie, attraverso la montagna, prima riservata ad una ristretta cerchia elitaria. Mi hanno sempre impressionato le poderose mani di Gildo. Sono mani sempre defilate e sottaciute come quelle di migliaia di esseri umani costretti a portare a termine le grandi imprese dell'uomo. Giù il cappello davanti alle grandi intuizioni della mente umana, ma, se non sono tradotte nell'azione, rimangono sterili. Ricordo che all'ultimo tremendo bivacco, che facemmo prima di uscire in vetta, eravamo a meno dieci gradi, ma Andrea mi disse che nella notte avevamo toccato i meno diciotto. Gildo arrampicava a mani nude, perché i suoi guanti li aveva dati a chi soffriva più di lui. Non serve elencare il suo curriculum alpinistico, che si può leggere nel libro di Giovanni Capra, “Due cordate per una parete”, che è il più bel libro sulle vicende alpinistiche e umane concernenti l'Eiger. Che, comunque, non potrebbero aggiungere nulla alla dimensione umana di questo personaggio. Gildo è sempre stato felice di mettersi a disposizione.
Come Gildo, tutti i componenti della prima cordata italiana, vittoriosa sulla Parete dell'Orco, sono di estrazione operaia.

A tutti i professionisti delle parole scritte, sempre in tema di alpinismo, vorrei ricordare che ci sono tanti personaggi a loro sconosciuti, che hanno scritto pagine importanti di storia alpinistica, pur non essendo reclamizzati e che non si pongono all'attenzione pubblica perché questo non è nella loro indole. Sono i fatti che contano e non le parole scritte in modo preconcetto nella scelta di campo. E' onesto ricordare la verità storica dei fatti reali.

I componenti della Spedizione alle Torri del Paine

I compagni alla Torre Sud Foto

Una nota particolare per tutti i componenti della Spedizione Monzese 1962-63 alle Torri del Paine nella Patagonia cilena.
Carlino Frigieri, impareggiabile organizzatore e capo della spedizione. Al quale, fra gli altri, bisogna aggiungere i collaboratori Renato Gaudioso e Gianni Corbani.
Josve Aiazzi, accademico del CAI, capo spedizione per la parte alpinistica.
Carlo Casati, accademico e ottimo operatore delle riprese per il film “Sesto grado in Patagonia” che con la regia di Renato Cepparo è stato presentato e premiato al Festival della Montagna di Trento.
Nando Nusdeo, accademico, la giovane stella della spedizione.
Vasco Taldo, accademico, il gigante buono, una forza della natura.
Senza esagerare, devo dire che questa nostra spedizione è stata un modello, forse irripetibile nel suo genere, anche perché in quegli anni una cosa del genere rappresentava un fatto di interesse nazionale.
Sono fortunato e orgoglioso di dire che non avrei mai potuto immaginare di essere invitato e accolto con tanta affettuosa amicizia, in questa irripetibile avventura umana, prima ancora che alpinistica.

Cesarino Fava

Cesarino Fava Foto

Cesarino Fava (1920-2008), era un uomo stupefacente, navigato, un ottimista ad oltranza, conversatore piacevolissimo, un pensatore, un predestinato, che avrebbe dovuto studiare filosofia. Quando, qualche volta, da Malè veniva a Rovereto e si fermava a casa mia, stavamo a discutere per ore mentre mia moglie stava in silenzio ad ascoltare incantata. Un adulto rimasto fanciullo. Di uno così, una volta si diceva: “scarpa grossa e cervello fino”. Un generoso senza misura. Del quale ti potevi fidare sempre. La sua casa di Marcos Paz in Argentina era un punto di riferimento per tutti i frequentatori della Patagonia.
Nel 1966 partecipò alla spedizione "Vittoria Alata", Torre Innominata, Ande Patagoniche e nel 1976 al tentativo di recupero delle salme di Filippo Frasson e Marco Bianchi alla Parete Ovest del Fitz Roy.
Nel corso di una piccola spedizione trentina, nell'attraversamento di una cresta ghiacciata al Passo Superiore per andare all'approccio del Fitz Roy, perdeva l'equilibrio e cadeva sul versante sottostante per una intera lunghezza di corda, mentre una guida che da sopra stava ad osservare, con una profanazione secca esclamava: “el sà copà”. Cesarino, da sotto, pur sanguinante per una ferita al cuoio capelluto rispondeva seccato: “un momento, pian con el sà copà, entant dai tireme su”. Questo era l'uomo.
Successivamente, Cesarino, quando raccontava di questo fatto, diceva di aver vissuto un'esperienza trascendentale più che metafisica e di essersi trovato sulla soglia in un tunnel, attratto da una grande luce indefinibile, concludendo che non è poi così drammatico morire.
Durante una sfortunata avventura sull'Aconcaqua, nel tentativo di salvare la vita ad un alpinista americano abbandonato dalla sua guida, in un bivacco a settemila metri, Cesarino aveva avuto i piedi congelati, per cui dovette subire l'amputazione dei mezzi piedi. Un incidente che non fermò la sua voglia di fare alpinismo e che gli valse poi il famoso soprannome "patacorta". Per quel gesto era considerato un eroe nazionale, per cui era stato proposto per la massima onorificenza argentina, “Il condor d'oro”. Poi successe la caduta di Peron e quindi non se ne fece più nulla. Comunque il gesto rimane.
Cesarino Fava, senza discussioni, è degno di essere fatto accademico alla memoria, come è stato per Ninì Pietrasanta.

Casimiro Ferrari

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Casimiro Ferrari (1940 – 2001), componente di spicco dei “Ragni di Lecco”. Negli anni 70-80 incontrastato signore delle montagne del vento: "Miro" per gli amici. Parete Ovest del Cerro Torre. Pilone Orientale del Fitz Roy. Murallon. Cresta Est del del San Lorenzo. Un poker inimitabile. Ha aggiunto un robusto gradino alla scala dei valori alpinistici e non solo di quelli.
Un uomo che ha saputo rimanere in modestia senza farsi travolgere dal mercato alpinistico in auge e che ci ha insegnato tante cose. Che non ha mai partecipato a tavole di nessuna forma geometrica, che non è mai stato contattato da Jonathan e varie del genere.
Lo avevo conosciuto ancora nel '60 sulla via Hasse-Brandler, Lehne-Low della Parete Nord alla Cima Grande di Lavaredo. In quella occasione lui era con Nandino Nusdeo ed io con Franco Solina.
Il 30 gennaio 1987, mi arriva una telefonata sorprendente. E' Casimiro che è appena tornato dalla Patagonia.
"Armando, so di darti una gioia e allo stesso tempo un dispiaceere. Con altri tre compagni ho salito la Cresta Est del San Lorenzo. So che era un tuo vecchio progetto".
Duemilacinquecento metri di dislivello con enormi difficoltà su roccia e ghiaccio. Una via sui contorni del Cielo.
"Bravo, Miro. Vieni a trovarmi. La mia situaziione è tale ormai che penso dovrò accontentarmi di partecipare alle gioie degli amici.
L'ultima volta che ci siamo visti è stato in occasione della 3a edizione Grignetta d'oro di Lecco (27/05/2001), pochi mesi prima della sua ultima Ascensione.

Gli amici della spedizione al Pilone Orientale del Fitz Roy

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Grazie all'aiuto di tanti amici roveretani nel 1971 organizzai la spedizione "Città di Rovereto" al Pilone Orientale del Fitz Roy composta da un formidabile gruppo di alpinisti della scuola roveretana.
Mariano Frizzera, un fortissimo, sempre disponibile. Nonostante sia rimasto defilato, ma i veri valori riescono sempre ad emergere. Uno spirito libero. Il compagno di cordata che tutti vorrebbero avere. Mi ha aiutato a capire di essere più flessibile. Certo che la sua amicizia è stata un arricchimento per me.
Ha effettuato e ripetuto il Cammino di Santiago in Portogallo. E poi la Via Francigena, dall'inizio fino a Roma. Ed altro che io non so. In più, lui si diletta di donare grandi soddisfazioni a chi ne ha bisogno. Come quando ha portato sul Campanile Basso il compianto amico Franco Galli, un past president della Sat di Rovereto. Fra l'altro, tenace organizzatore e sostenitore, mettendoci del proprio, di questa sfortunata spedizione. Mariano è un computer vivente, con una memoria da elefante. Un dono ereditario. Quando non mi ricordo una data, qualcosa di importante, mi rivolgo a lui e sono sicuro di essere aiutato e di non sbagliare. Mariano è uno di quei fortunati che hanno capito che dare è più bello che ricevere.
Graziano Maffei, meglio conosciuto come Feo. Compianto alpinista principe delle Dolomiti, passato come una meteora. Uno sciatore brillantissimo. Forse per un inconscio errore di prospettiva aveva messo, al sommo della scala dei valori, l’alpinismo che, per un banalissimo incidente, gli è costato la vita. Con il suo inseparabile compagno, Mariano Frizzera, ha formato una formidabile cordata, paragonabile a quella famosissima degli indimenticabili Oggioni e Aiazzi.
Sergio Martini, voglio sottolineare che non è un venditore di parole inutili. Il suo parlare è stringato, sintetico, di sostanza. Per lui parlano i fatti. Non ha mai cercato la ribalta mediatica. Non è un arrogante, nè un presuntuoso. Ha la fortuna di possedere la rara virtù della modestia.
Nel corso di una serata di montagna ho potuto ascoltarlo e vedere anche un suo eccezionale filmato e sono rimasto colpito dall’abbacinante candore delle vette himalayane. Quelle montagne che lo hanno stregato irreversibilmente.
Lui è semplicemente di un’altra dimensione. Affascinato dal bianco candore delle più alte vette himalayane, vertici della terra. Altre parole meditate e laudative non servono. Dico che va annoverato fra i grandi alpinisti di ogni tempo, ne sono sinceramente convinto. Sono orgoglioso di avere un amico come lui, che ha avuto anche il merito di portare all’apice la tradizione alpinistica roveretana iniziata, allora, dal grande Pino Fox, detto Zaspa”. Ha avuto il merito, attraverso il tempo, di saper maturare e crescere in senso lato.
Angelo Miorandi e Franco Solina. Di loro, miei amici fraterni, ho già parlato all'inizio.